A far data dal 22 settembre 2021 con modifica al DL 52/2021 è stato introdotto l’obbligo di green pass (certificazione verde) in maniera pressoché generalizzata per lo svolgimento di attività lavorativa. Ci occupiamo qui dell’applicazione al settore privato, definita dall’art. 9-septies del citato decreto.
La generalizzazione dell’obbligo rivela, a parere di chi scrive, forzature estreme. La novella normativa parifica infatti irragionevolmente situazioni disuguali, e questo già varrebbe a determinarne il contrasto con il principio di ragionevolezza e con l’art. 3 Cost.
I contesti di lavoro sono diversissimi tra loro e altrettanto irriducibili a unità vi appaiono le modalità e la frequenza di relazione interpersonale, dunque il rischio di contagio.
L’esclusione di una valutazione dei rischi in concreto
In maniera contraddittoria rispetto alla dichiarata ratio perseguita, la novella esclude ogni ragionevole forma di valutazione in concreto del rischio e il coinvolgimento, che dovrebbe essere invece necessario, del principale soggetto competente a valutarlo in azienda, ossia il medico del lavoro.
L’art. 9-septies sembra infatti applicarsi a prescindere dall’apprezzamento del medico e da una valutazione effettiva.
Neppure tiene conto dell’impiego dei dispositivi di protezione individuale, o DPI, che costituiscono altrove nella più generale normativa strumenti fisici idonei di contrasto alla diffusione del virus, e dunque di abbattimento del rischio connesso. Ciò appare irrazionale.
L’art. 32 Cost.
Le conseguenze per il lavoratore non munito di valido green pass sono invero gravissime e ne colpiscono in maniera che appare sproporzionata i diritti fondamentali, costituzionalmente garantiti. È appena il caso di notare che non appare richiamabile a supporto l’art. 32 Cost., non sussistendo al momento nel nostro Paese alcun generale obbligo vaccinale in relazione al Covid-19, fatte salve alcune specifiche categorie professionali.
Semmai l’art. 32 Cost. garantisce il diritto di non vaccinarsi, in mancanza appunto di disposizione di legge di segno opposto (ivi comma 2).
Se il Legislatore avesse ritenuto realmente necessaria ai fini della salute pubblica la vaccinazione globale, l’avrebbe disposta positivamente, nel dovuto rispetto dell’architettura costituzionale, che non può essere elusa.
Conseguenze per i lavoratori
Vediamo alcune di queste conseguenze. I lavoratori “che risultino privi della predetta certificazione al momento dell’accesso al luogo di lavoro, al fine di tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro sono considerati assenti ingiustificati fino alla presentazione della predetta certificazione e, comunque, non oltre il 31 dicembre 2021”, comma 6 dell’art. 9-septies citato.
Per essere assenti ingiustificati occorre cioè essersi presentati sul luogo di lavoro. Formulata così, la disposizione è un esercizio di neolingua. Alla base appare esserci una confusione ontologica, che approda a scelte terminologiche paradossali.
Il lavoratore, assente ingiustificato nei termini (rovesciati) di cui sopra, non perderebbe comunque il lavoro ma il compenso. Non è poco. Sul punto la disposizione normativa di cui al comma 6 precisa: “Senza conseguenze disciplinari e con diritto alla conservazione del rapporto di lavoro”.
Non altrettanto prevede il comma 8, in base al quale “restano ferme le conseguenze disciplinari secondo i rispettivi ordinamenti di settore” per i lavoratori che accedano ai luoghi di lavoro senza possedere ed esibire, su richiesta, la certificazione verde. Il coordinamento, non ineccepibile, con il comma 6 sembra essere rimesso al momento in cui avvengono i controlli, e tutto sommato dunque anche alla casualità della loro effettuazione.
Il rischio del licenziamento e di sanzioni amministrative
Da notare che nell’ipotesi disciplinata dal comma 8, potrebbe non essere escluso perfino il licenziamento, come si è già ipotizzato in un primo studio di Confindustria (pdf). A chi scrive sembra che la sanzione massima mal si concili, per gravità, con la previsione del comma 6, che descrive una condotta oggettivamente limitrofa ma dichiaratamente priva di esito disciplinare.
Non sembra confortare la scelta della sanzione massima neppure la parificazione, invero apodittica, tra mancanza di certificato ed effettivo rischio sanitario per l’azienda, tanto più ove quest’ultimo sia inferito ex lege, dunque in astratto, omettendo le valutazioni che in concreto potrebbero invece smentirlo o ridimensionarlo da parte del medico competente, e prescindendo dalla sussistenza delle altre misure di effettivo contenimento come i DPI.
Appare cioè opportuno per l’imprenditore valutare con prudenza le conseguenze disciplinari, evitando eccessi che potrebbero non sempre risultare agevolmente difendibili in sede contenziosa.
Il lavoratore rischia altresì, nell’ipotesi del comma 8, di essere sanzionato amministrativamente da € 600,00 a € 1.500,00, e questo paradossalmente per avere esercitato il suo diritto di non vaccinarsi, ad oggi riconosciuto dall’art. 32 Cost., ved. sopra.
Distinzioni binarie e contraddizioni
Non c’è spazio qui per affrontare in dettaglio altri temi più tecnici quali il fondamento scientifico del rischio di diffusione del virus, che sembra riguardare purtroppo anche i vaccinati, i quali possono ben contrarre il patogeno, sviluppare carica virale e talvolta anche la malattia, cfr., ex multis, CDC, Outbreak of SARS-CoV-2 ecc., in particolare ivi parte sul “viral load”.
Tale evidenza fa cadere o mette quantomeno in serio dubbio le distinzioni binarie tra rischio e carenza di rischio sulle quali il Governo sembra avere edificato la normazione straordinaria.
Nessuna novità peraltro. Serie perplessità sulla coincidenza tra vaccinazione e immunità erano state espresse già nel febbraio 2021 dall’OMS e ritenute dirimenti in aprile dalle Autorità di controllo europee per la protezione dei dati personali rispetto alla certificazione comprovante la vaccinazione, da non assumere quale certificazione di immunità.
La tesi che il vaccinato sia immune al virus è peraltro ipso facto smentita dallo stesso Normatore laddove questi non solo non esclude per i vaccinati il pericolo posto dai consociati senza green pass, ma ne fa a ben vedere il principale pilastro logico della normazione straordinaria. Contraddittoriamente, cioè, i vaccinati sarebbero al tempo stesso immuni e non immuni. È il paradosso del gatto di Schrödinger e ha certamente effetto sulla tenuta giuridica della decretazione.
In realtà, nell’attuale assetto, i portatori di green pass (vaccinati e non vaccinati) possono ben essere contagiati dai loro omologhi, perché la certificazione, contrariamente agli assunti governativi, nulla di certo indica sull’effettivo stato di salute del singolo, che appare semmai determinabile, sia pure con approssimazione, solo attraverso un tampone.
Stigma sociale e riduzione di cittadini a paria
L’arbitraria equiparazione concettuale tra possesso del green pass e salute ha portato a velenose divisioni e allo stigma sociale nei confronti di migliaia di cittadini ridotti sostanzialmente a paria. Si sono registrati episodi di violazione di norme basiche e della dignità dell’uomo, come i casi di insegnanti invitati ad abbandonare la classe essendo intervenuta nelle more la scadenza oraria del green pass. Quasi che il termine della durata burocratica del certificato corrispondesse a contestuale compromissione dello stato di salute.
Ciò è potuto avvenire perché si è lavorato su “proxy”, ossia su grossolani succedanei degli oggetti che si intendeva disciplinare. Per questa via, il green pass è diventato la medesima cosa dello stato di salute e la scadenza oraria del primo compromissione del secondo.
In diritto andrebbe evitato il più possibile l’uso di proxy, essendo ben noto che quanto più si operano approssimazioni tanto maggiore è il rischio di distorsioni e applicazioni discriminatorie. Andava anche condotta preliminarmente alla decretazione quell’analisi del rischio che è pressoché sconosciuta al nostro Legislatore, ancorché vi sia tenuto.
La sostituzione dell’esercizio dei diritti costituzionali con un codice QR che legittimi a esercitarli (insidioso esperimento, comunque lo si guardi, e ancor più in seguito alla sua accettazione sociale), ossia l’idea, che deve essere apparsa ingegnosa, di aggirare il disposto del secondo comma dell’art. 32 Cost. creando un pervasivo sistema di certificazioni amministrative e un capillare e diffuso trattamento di dati altrui (peraltro facilmente esposti a inferenze) sembra porsi a chi scrive in contrasto con le basi stesse del diritto alla protezione dei dati personali.
Ciò già per il solo fatto di essere un aggiramento appunto, ossia una violazione dei principi di correttezza e di finalità, e a prescindere da più approfonditi esami dei criteri di liceità, necessità e proporzionalità. In realtà le violazioni del GDPR e del Codice privacy appaiono considerevoli.
Necessità e proporzionalità
Si sente domandare spesso dai non addetti ai lavori a che cosa serva la “privacy”. Bene, i nostri dati personali riflettono le nostre scelte. Conservarne il controllo e pretendere il rispetto di regole da parte dei soggetti privati e pubblici che li trattano, tanto più quando questi ultimi sono apicali e addirittura produttori di norme, dunque concentrano un enorme potere, offre un guscio protettivo a quelle scelte e alla sottostante libertà che le ha determinate. Far valere le regole vuol dire per esempio non essere discriminati nell’esercizio di diritti fondamentali per avere effettuato scelte individuali sulla propria salute che si aveva pieno titolo di esercitare, ved. sopra a proposito dell’art. 32 Cost.
Ecco a che cosa serve la “privacy”. Non è ovviamente una pretesa assoluta, ma neppure è assoluta la pretesa opposta, che deve essere giustificata innanzitutto in termini di necessità e proporzionalità. Necessità non equivale a opportunità e neppure a legittimo indirizzo politico perseguito. Necessità è proprio necessità: ossia, deve sussistere una sola strada e deve esserci ragione di percorrerla assolutamente. Il confronto con altri Stati membri UE, dove si sono operate scelte diverse, palesa senza ulteriore analisi che non sussiste alcuna necessità.
Visto che si è toccato il piano eurounitario, preme segnalare che la violazione, per esempio, dell’art. 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (CDFUE) integra violazione di disposizioni che hanno lo stesso valore giuridico dei Trattati. Così è dal 1° dicembre 2009.
Conclusioni
Resta ferma l’utilità e l’efficacia dei vaccini, supportati da ampia e solida evidenza scientifica, ma non esenti da un rischio individuale.
Tale rischio sembra, almeno a chi scrive, giuridicamente affrontabile solo sul piano della libera scelta del singolo, a meno di non voler considerare sacrificabile alla collettività un certo numero, sia pur ridotto, di cittadini. Cfr. Agenzia Europea per i Medicinali, COVID-19 vaccine safety update Cominarty BioNTech Manufacturing GmbH, July 2021: “As of 4 July 2021, a total of 206,668 cases of suspected side effects with Comirnaty were spontaneously reported to EudraVigilance from EU/EEA countries; 3,848 of these reported a fatal outcome”.
Del resto, il Legislatore mostra piena contezza della possibilità di effetti collaterali anche gravissimi ad esito della somministrazione dei nuovi vaccini, tanto da avere introdotto apposito scudo penale, con l’art. 3 DL 44/2021.
In letteratura medica sono emerse sindromi specifiche collegate, in casi assai rari, ad alcune tipologie di vaccino, note con gli l’acronimi “VITT” – vaccine induced thrombotic thrombocytopenia, “VIPIT” – vaccine-induced prothrombotic immune thrombocytopenia, “TTS” – thrombosis with thrombocytopenia syndrome (cfr. qui per un primo orientamento).
Per questo credo che la scelta vaccinale non possa che essere e restare libera e personale. In ambito italiano si è invece recentemente sperimentata una scorciatoia fortemente coercitiva, inedita per dimensioni nell’Unione, forzando l’autodeterminazione individuale attraverso la mortificazione della persona, la sospensione di diritti fondamentali, l’emarginazione dai consociati e l’esclusione da occasioni di vita.
Questa particolare modalità di rieducazione del cittadino, sia permesso osservare, ha un certo sapore pavloviano, strutturata su punizioni e ricompense.