È lecita la videosorveglianza segreta da parte di un comune?

Ci è stata posta questa domanda a proposito di recenti notizie di stampa relative a un comune del bolognese, Anzola dell’Emilia. La vicenda tocca evidenti profili privacy di interesse generale che trascendono l’episodio specifico. Riteniamo perciò utile pubblicare la nostra valutazione.

Innanzitutto, il caso: il Comune emiliano decide di contrastare l’abbandono selvaggio di rifiuti e la commissione di atti di vandalismo posizionando videocamere mobili. I dispositivi sono cioè spostati mensilmente in punti diversi del territorio. Fin qui nulla quaestio, si tratta di finalità certamente commendevoli e in linea con quelle dell’ente pubblico.

Si apprende tuttavia, non solo da notizie di stampa ma da un post Facebook dello stesso sindaco, che tali videocamere sarebbero appunto “segrete”. Ecco la dichiarazione: “Abbiamo allora piazzato svariate telecamere mobili in punti segreti di Anzola

Risulta inoltre che le immagini dei soggetti ripresi siano state pubblicate sul predetto social network. Le abbiamo visionate e possiamo confermarlo. Pur non comparendo i volti, i soggetti appaiono, a giudizio di chi scrive, riconoscibili in ambito locale per i vestiti usati e per il modello di vettura. In altre parole, vengono in considerazione dati non propriamente anonimizzati.

E le informative?

Qui il giurista trasecola: due anni di cultura GDPR e oltre venti di cultura sulla protezione dei dati personali sembrano trascorsi invano. Dalla circostanza che le videocamere sono “segrete” deduciamo linearmente che esse non sono segnalate da informativa sul trattamento: diversamente non sarebbero segrete, ma palesi. E così devono appunto essere: palesi e ben segnalate.

L’obiezione che in tal modo sarebbero poco efficaci è un cattivo ragionamento. Anche a prescindere dall’ovvia considerazione che non tutto ciò che è efficace è anche giuridicamente lecito, l’effetto deterrente è già determinato dalla mera presenza di cartelli informativi ben visibili, mentre le finalità repressive sono raggiunte dall’acquisizione delle immagini.

L’ulteriore obiezione che in questo modo non si riuscirebbe a coprire l’intero territorio comunale mentre l’ignoranza circa la reale collocazione delle videocamere permette di ottenere la deterrenza in maniera più ampia a parità di mezzi appare altrettanto fallace.

Da un lato infatti non giustifica violazioni normative, dall’altro si scontra con evidenti ragioni di bilanciamento di interessi tutelati, che sconsigliano dal trasformare il territorio comunale in un immenso Panopticon videosorvegliato.

Quanto alla pubblicazione delle immagini non anonimizzate, è evidente che la finalità è qui soltanto quella dello stigma sociale, confermata dai feroci commenti a margine del post su Facebook del sindaco. La finalità repressiva di illeciti risulta invece già raggiunta con l’acquisizione delle immagini al fine di accertare le violazioni amministrative e sanzionarle.

E la valutazione d’impatto?

Viene anche da chiedersi (tra i molti dubbi che la vicenda solleva in tema di accountability): in preparazione di una vasta campagna di monitoraggio regolare e sistematico attraverso l’utilizzo di dispositivi dichiaratamente “segreti” per finalità sanzionatoria, il Comune avrà proceduto come per legge a una valutazione d’impatto, ossia a DPIA ex art. 35 GDPR? E se ciò è successo, che declinazione si è mai fatta dei principi del trattamento (artt. 5 GDPR e 25 – privacy by design e by default) come pure delle altre norme applicabili (es. art. 13 GPDR)?

Vedremo come il Garante per la protezione dei dati personali affronterà la vicenda. Certo è che, se le notizie di stampa qui in commento e le stesse dichiarazioni del sindaco del Comune di Anzola dovessero ricevere conferma, ci troveremmo dinanzi a un curioso paradosso: colpire violazioni di legge commettendone altre.